giovedì 30 luglio 2020

La timidezza delle Linee Guida per l'educazione civica

Un contributo di Cinzia Mion, già Dirigente scolastica, Formatrice, Psicologatratto dai social (Fb, 30 luglio 2020)

Non so chi ha steso le Linee Guida per l’educazione civica e non voglio saperlo.
Il termine che avrei voluto usare non è timidezza. Avrei voluto dire “piattume” o forse insignificanza. Il fatto è che manca un “guizzo” per accendere la curiosità e la voglia di accedere per affrontare la tematica con un po’ di autentico senso civico.
Dirò subito cosa manca.
In un paese inginocchiato dalla crisi sanitaria ed economica, attraversato da una corruzione insopportabile a tutti i livelli; afflitto spesso dal “negazionismo” più idiota e becero che si possa immaginare; con un rappresentante delle Istituzioni che deposita i suoi soldi in Svizzera e in altri esotici paradisi fiscali, poi se ne vanta come di un gesto “trasparente” e non si rende conto di quello che sta dicendo; con le Forze dell’ordine, come l’Arma dei Carabinieri (considerata per molto tempo il fiore all’occhiello per rettitudine) sotto accusa per una caserma intera come covo di malavitosi, (macchiatasi a dire il vero negli ultimi tempi di parecchi episodi scabrosi e delinquenziali); con una Magistratura dal volto nobile deturpato da carrierismi e volgari “voti di scambio”, e non solo… A fronte di questa carrellata talmente deprimente da renderci tutti orfani di qualsiasi appiglio decente, che regga al peso della nostra Vergogna, cosa si vuole insegnare la scuola?
Ancora una volta una serie di contenuti, un po’ aggiornati perché c’è l’Agenda 2030 (!), come se fossimo nel 1958, all’indomani del varo della prima educazione civica!
Vi risparmio la scaletta delle voci scontatissime, come del resto erano già nella Legge del 20 agosto 2019, n°92, sorvoliamo sulle indicazioni burocratiche del più stantio scolasticismo (quante ore, da parte di chi, come valutare), cosa rimane a dare una scossa salutare tale da poter esclamare : “Ecco, finalmente, qualcosa di illuminante, possiamo confidare allora nelle nuove generazioni per sanare il Paese?” Niente!
Non appare nessuna capacità di analisi del contesto sociale attuale, delle sue derive pericolose ed insane (a partire dall’indifferenza diffusa, passando per un narcisismo crescente, fino all’intolleranza e al razzismo in aumento esponenziale) ma soprattutto manca completamente la denuncia forte e chiara del deficit di "etica pubblica".
La differenza tra morale ed etica, convenzionale, è che la prima riguarda ciò che comunemente si chiama "coscienza", legge genitoriale interiorizzata che deriva dalle norme assunte dal gruppo di appartenenza, per stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Poggia sul senso di colpa. La seconda, l'etica, indica il modo di comportarsi nella dimensione pubblica nel rapporto con gli altri. Poggia sul senso di responsabilità, quindi presuppone una scelta consapevole. La società civile è il luogo dove si forma l’etica pubblica. Il problema è che la nostra società civile è connotata da un notevole familismo amorale (da quando? Qualcuno fa risalire questo alla mancata Riforma protestante, anzi proprio alla Controriforma…), familismo che Edward Banfield negli anni ‘50 chiama speciale malattia degli italiani che consiste nel porre l’interesse del proprio tornaconto “particolare” sempre e comunque prima di quello collettivo, nella diffidenza verso lo Stato, nella insofferenza alle regole, per cui tutto ciò che viene compiuto per sé o per la propria “famiglia” va bene, anche se è contro la collettività. A questo problemino non da poco, su cui necessiterebbe formare la consapevolezza del corpo docente (colpevole appare subito allora aver perso questa opportunità!!!) bisogna aggiungere un altro atteggiamento “culturale”, in senso antropologico profondo: si tratta della furbizia, che sembrerebbe altrettanto caratterizzare il popolo italiano. Furbizia tesa ad evitare di essere considerati fessi, alla luce però del fatto che, nel senso popolare, è fesso chi segue le regole senza aver prima escogitato, furbescamente, qualche marchingegno per aggirarle!
Il medesimo ragionamento possiamo fare per un altro atteggiamento che si può definire del “fare finta". Sul fare finta poggia per esempio il malcostume, che può caratterizzare anche la cosiddetta burocrazia scolastica (programmazioni, verbalistica, relazioni, ecc.), per cui qualche volta non è necessario che il dichiarato corrisponda all’effettivo... basta che “tornino i conti".
A fronte comunque dello sfacciato perseguimento degli interessi personali, che io definisco semplicemente tornacontismo, possiamo affermare che manca completamente una riflessione sul bene comune. Manca talmente tanto che secondo me è proprio carente la sua categoria mentale.
È buffo perché le linee guida parlano di “beni comuni”, senza considerare il fatto che i beni comuni sono già dati, si tratta di rispettarli (fatto encomiabile ed augurabile senza dubbio, ma poco originale!). IL “bene comune" invece intanto non è la somma dei beni individuali ma va co-costruito, e bisogna capire che per realizzarlo bisogna imparare tutti a “rinunciare a qualcosa”.
Recentemente Enzo Bianchi, l’ex Priore di Bose , nella sua rubrica del lunedì di Repubblica, al posto dell’Amaca di Serra, esordisce così: “Chiediamoci con franchezza che fine ha fatto la nozione di bene comune. Si tratta di un concetto essenziale per la convivenza e la qualità della vita nella polis. Bene indica ciò che vorremmo per noi e per le persone alle quali siamo legati, così da poter vivere in bellezza. Comune, dal latino communis, indica un compito svolto insieme e un dono condiviso. Bene comune sono anche la democrazia, la cultura, l’arte”. Per cui, aggiungo io, queste categorie vanno difese… da tutti gli attacchi o le noncuranze (che sortiscono gli stessi effetti!)
Ebbene la Scuola è la prima Istituzione pubblica con cui un soggetto entra in contatto: nelle scuole avviene una specie di “imprinting” che lascia un segno che conta di più di tutti gli “imparaticci” dell’educazione civica con tanto di voto! L’elemento decisivo è la coerenza tra la comunicazione esplicita e quella implicita (ovvero tra le prediche e le pratiche), in altre parole contano i comportamenti esemplari degli operatori scolastici, tutti! A scuola poi si vive la prima esperienza di essere trattati in modo corretto o scorretto come titolari di diritti uguali per tutti (senza privilegi!). Se la scuola diventa il luogo, nella rappresentazione mentale degli studenti, dove si compiono ingiustizie (subite direttamente o da altri) incomincia il rifiuto del modo di operare delle Istituzioni.
La Scuola insegna le regole ma purtroppo a volte insegna anche a non “rispettarle” (Vedi “Ragazzi si copia” di Marcello Dei) ma soprattutto l’azione del “cheating”, quel fenomeno diseducativo dal punto di vista etico-pedagogico per cui sono a volte i docenti stessi ad “imbrogliare” nelle verifiche delle Prove (es. INVALSI) suggerendo le risposte agli allievi.
Alla fine, permettetemi un ulteriore appunto. In questo momento storico, in cui la violenza sulle donne non conosce pause, è mai possibile che la persona o la commissione che ha steso le linee guida non sia riuscita a partorire la semplice espressione “Educare alla parità di genere”, quando l’agenda 2030 esplicitamente vi fa riferimento? Infatti, esce solamente un timido “uguaglianza tra soggetti". Non è che fra un po’ ci accodiamo alla Polonia nel voler sconfessare la Convenzione di Istanbul?

P.S. Rimane sottinteso che in ogni affermazione non ho mai inteso generalizzare. Parlarne però sì.

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