lunedì 3 febbraio 2020

Questo vedo. Questo sento.


Venerdì. Colloqui con i bambini.

Arriva S., è il suo turno. Piccolo di statura, capelli lunghi e occhi molto grandi. Entra disinvolto e si siede a fianco a me. Davanti trova le carte domanda che avevano guidato le riflessioni in gruppo sul rapporto con la scuola e, dietro mia sollecitazione, aggiunge qualche altra considerazione rispetto a quelle emerse dal suo gruppo durante la restituzione alla classe.
Poi prendo in mano la sua tabella di autovalutazione per ripercorrerla con lui e offrirgli il mio sguardo rispetto a quanto da lui espresso.
Mentre gli chiedo se vuole dirmi qualcosa oltre le carte e oltre la tabella, mi guarda con i suoi occhi grandi e mi dice:
- Tu sei una maestra che fa lavorare molto.
- Davvero pensi questo? (Non riesco a nascondere la mia gioia nello scoprire che almeno i bambini se ne accorgano). Sai che invece molti grandi non pensano questo dato che non usiamo il libro di testo e che tante attività non le trovano sul quaderno…
Mi guarda come a dire “Ma sono matti?” e aggiunge: - Sì, lo penso. Tu sei una maestra che fa lavorare molto.
E io gli dico: - Ma questo ti fa stancare o ti piace?
- No, mi piace perché affrontiamo lavori in cui viene sempre fuori qualcosa che ti fa rimanere a bocca aperta, che ti lascia stupito. Non te lo aspetti e arrivano sempre significati che danno un senso all’argomento.
A questo punto, sentendo questo linguaggio e queste riflessioni, lo invito ad aspettare un attimo e gli chiedo il permesso di appuntarmi ciò che mi sta dicendo perché – gli dico - mi interessa molto. Così mi organizzo, scrivo velocemente queste prime cose, facendo attenzione a non perdere le sue parole, e lo invito a continuare.
- Sì, le cose che facciamo hanno sempre un senso, proprio un senso.
- Mi puoi fare un esempio? – gli chiedo io.
- Sì. Prendi la storia del bambino morto nel carrello a Parigi, quella dell’articolo che ci hai fatto leggere in coppia. Io all’inizio pensavo che non fosse il caso di parlare a scuola di un fatto così grave, poi però con questa storia ho pensato molto e ho imparato molte cose.
Ho capito che ci sono bambini che non si possono permettere di andare in un altro paese e questo per me è molto grave perché se uno non ha una bella vita deve poter cercare una vita migliore.
Cambio discorso e gli chiedo se voglia dirmi qualcos’altro sui suoi apprendimenti, se c’è qualcosa con cui fatica o qualcosa che sente di avere imparato proprio bene.
- Mi piacciono molto tutte quelle cose che sembrano difficili ma che mi fanno pensare molto e poi diventano facili, come quelle che ci fai fare a mente in matematica, perché mi piace trovare il modo per pensare.
Difficili trovo le lettere maiuscole in corsivo e le parole nuove quando le devo scrivere la prima volta.
- Però spesso ti vedo distratto – gli dico io – un po’ come se fossi da un'altra parte. - Beh… questi anni non sono stati facili per me, maestra – mi dice mentre gli occhi gli diventano lucidi - A me sono morte molte persone (e mi elenca i nomi di due nonne e di un nonno) e io penso spesso a loro. Mi mancano molto e questo è difficile per me. 
Ci fermiamo a mettere a fuoco ciò che dovrà impegnarsi a migliorare e il colloquio si chiude. Ci salutiamo con un bacio mentre va a chiamare la compagna che deve raggiungermi dopo di lui.

Sette anni.

So che per chi non lo conosce sarà difficile credere a queste riflessioni e a queste parole, ma so anche che non sarà così per chi ha incontrato il bambino dietro quella S. e per chi i bambini si ferma ad ascoltarli e ad accogliere ciò che sanno vedere, sentire, esprimere.

Ero combattuta se condividere, ma poi ho pensato alle parole di una mamma che lavora molto con me e che conosce le mie resistenze, quelle che stanno finendo per avere sempre la meglio: “Enrica, pensa sempre e solo a cosa ti guida” e tutto il resto lascialo andare.

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