Una passeggiata lungo un sentiero di montagna.
Lo percorriamo con calma ciascuno con il proprio passo, regolare e cadenzato.
Si sa, in montagna non esiste una gara contro il tempo perché non esiste un tempo di percorrenza uguale per tutti. Il cartello posto a inizio percorso segnala la durata del cammino ma quel tempo è solo un’indicazione, ognuno poi lo deve misurare e ricalcolare su se stesso, sulle proprie risorse, forze e capacità e capire così se è possibile farlo. E non esiste una gara verso gli altri, non esistono vincitori e vinti; esiste invece un camminare insieme dove chi è davanti non perde mai di vista chi è rimasto indietro, pronto a intervenire se ne avverte la difficoltà o il disorientamento. Pronto a rallentare fino a fermarsi, semplicemente per volerlo aspettare, per riprendere il fiato, per scambiarsi due parole, per ripartire di nuovo insieme. Perché in montagna la vera felicità non è conquistare la meta da soli ma con chi ha condiviso il cammino, per vivere nello stesso istante la meraviglia, lo stupore e l’incanto di un paesaggio che si presenta improvvisamente e inaspettatamente davanti agli occhi. Restare così un momento in silenzio a contemplare e, soprattutto, a ringraziare…
La salita del nostro sentiero è impegnativa ma la bellezza del paesaggio allenta ogni fatica. Anche la curiosità è presto nostra gradita compagna, il percorso che stiamo affrontando si chiama “Il sentiero incantato”…chissà dove ci porterà…E quei segni colorati e quei numeri disegnati sui sassi cosa vorranno dire? Spiego ai miei figli che servono proprio per segnare il sentiero che stiamo percorrendo e che dobbiamo seguire per arrivare alla meta; che sono importanti per non sbagliare, per non perdersi, per consentirci di ammirare e apprezzare i panorami, la bellezza della natura che ci circonda in ogni suo minimo particolare, per aiutarci a gestire meglio le nostre energie, per non ritrovarci a dover affrontare un tratto pericoloso e magari farci male.
I bambini sono attenti e presto si accorgono che il sentiero come segnato spesso, però, allunga il tragitto. Perché non andare da questa parte che facciamo prima? Perché bisogna fare tutte queste curve, salite e discese, se possiamo andare dritti? Ritorno sui motivi appena spiegati, sul perché un sentiero viene segnato, ma questa volta aggiungo che le scorciatoie non sempre sono la via più comoda, la via più conveniente, la via più breve.
Come nella vita, dopotutto!
Sebastian comprende subito cosa voglio dire. Lui lo sa, siamo in montagna, ma per un attimo ritorna nel suo viaggio a vela, quello che gli ha insegnato la sua maestra, quello che vive a scuola insieme a lei e ai suoi compagni. Quello che gli ha insegnato ad amare la scuola, a volerla vivere con passione e completamente, senza paure e riserve.
Già, le scorciatoie...
Quelle che fanno dimenticare la motivazione, il senso che ci ha fatto incominciare il cammino, l'obiettivo che intendiamo raggiungere.
Quelle che scegliamo per evitare un passaggio, per evitare un incontro, un confronto. Quelle quindi che non consentono di metterci in ascolto dell’altro. Un ascolto che dovrebbe essere accoglienza; uscire per un attimo da noi stessi, sostare e sentire i suoi pensieri, le sue ragioni, le sue convinzioni. Un ascolto che è volersi aprire all'altro per dargli giustamente la possibilità di spiegarci il senso di una scelta, di un atteggiamento, con il solo scopo di volerci consegnare il suo pensiero. Un ascolto che possa dare spazio alle domande. Un ascolto che richiede coraggio e onestà, per saper vedere e riconoscere dove risiede la verità, senza giudicare o condannare. Un ascolto che diventa il luogo dove avere l'opportunità di sostenere e difendere le proprie idee, di confermarle, di motivarle, senza nascondersi, senza negarsi, senza aver paura delle conseguenze, senza piegarsi ai condizionamenti, senza sottrarsi alle responsabilità e ai doveri. Un ascolto che è dialogo: alzarsi e serenamente parlare, sedersi e umilmente ascoltare. Senza aver bisogno di altro.
Quelle che tolgono il gusto della scoperta, che cancellano lo stupore, che soffocano la passione. Quelle che non ci conducono alla radice delle cose.
Quelle che non ci fanno guardare alla vita con lo stesso sguardo dei bambini, uno sguardo trasparente, limpido, dove tutto è visibile senza distorsioni, nella verità e semplicità, senza essere contaminato di pregiudizi o convinzioni sbagliate.
Quelle che non ci fanno abbracciare il dolore e le fatiche quotidiane.
Quelle che io considero le più pericolose. Scorciatoie che ci impediscono di allontanarci da noi per saper riconoscere chi sono davvero i nostri figli e capire quali sono i loro reali bisogni. Scorciatoie che ci limitano nel nostro compito educativo, dove le nostre aspettative sovrastano i loro desideri, le loro scelte, le loro idee; dove abbiamo la presunzione di essere gli unici a saper mettere ordine al loro disordine; dove rischiamo di essere dei falliti se mai un giorno ci dovessimo trovare davanti un figlio che si è rassegnato alle nostre decisioni, negandogli quella giusta libertà di sentirsi parte viva di un mondo che ha bisogno di lui come persona, con la sua unicità e particolarità, qualsiasi essa sia.
Concludo con delle parole di Antonio Fatigati tratte dal libro “Ti ho chiamato figlio – Lettera a una donna che vorrebbe essere madre”. Parole che faccio mie, che traducono e completano bene la mia riflessione. Che vogliono essere parole di sincera gratitudine a te, Enrica, che nella tua scelta di essere prima di tutto maestra di vita per mio figlio, mi hai insegnato la lezione più alta, più grande, aiutandomi a essere quel genitore che porta dentro di sè un pensiero che oggi desidero offrire a tutti i genitori: sappiate che i nostri figli ancor prima di essere amati come figli, devo essere amati come persone, diverse da noi. Solo se riusciremo a farlo impareremo a guardarli e a sentirli in modo unico e autentico. Questo è vero amore.
“…I figli non ci appartengono. Sono piuttosto uomini e donne di questo mondo, con i limiti e i pregi che questo mondo ha. Ameranno e verranno amati, proveranno gioie e dolori, esattamente come noi. Comprenderanno forse cose che non siamo stati in grado di comprendere o forse ignoreranno cose per la conoscenza delle quali abbiamo dedicato parte della nostra vita. Faranno cose che non avremmo mai fatto o faranno meglio le cose che a noi non sono riuscite. E forse, ancora, falliranno proprio nelle cose che invece a noi riuscivano benissimo. Il tutto in un legame profondo che travalica gli anni, entra nella storia, quella con la "s" minuscola, che non viene scritta sui libri ma consente il progredire della vita giorno per giorno, mese per mese, anno per anno. L’augurio che ti faccio, è che tu possa un giorno guardarlo negli occhi e dirgli: “Ti ho amato con tutta me stessa. Ma soprattutto mi è riuscito di chiamarti figlio…”
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