Ricordo con chiarezza che l'anno scorso, al ritorno dall'Eas Day, mi sono infilata in un treno per Verona, il giorno dopo mi aspettava il Convegno a Negrar, con gli amici della rete "C'è speranza se accade". Riesco a sentire ancora tutte le sensazioni. Ero felice di quel tempo da sola. E nonostante avessi un po' di febbre e fosse una serata fredda, ho voluto camminare a lungo fino a che era troppo tardi per stare per le strade da sola. Le emozioni erano state troppe, avevo bisogno di decomprimere, di srotolare. L'Eas Day non era un evento come quelli dove ero stata altre volte, niente a che fare. Avevo sentito completamente la forza di un'idea di scuola, quella che mette al centro lo studente. L'avevo sentita con chiarezza nell'intervento di apertura di Pier Cesare Rivoltella e in quelli che sono seguiti, ma anche nei tanti scambi tra le persone presenti. Come poteva essere? Ero dentro una bolla di bellezza. E ne avevo avuto conferma dall'accurata scelta delle parole di Pennac, portate in scena nel meraviglioso intermezzo teatrale. Ho capito subito che niente era un caso, come non lo era il luogo, così adatto ad accogliere, prendersi cura, far star bene ognuno di noi. Cose rare per noi gente di scuola.
È stato necessario stare in silenzio a lungo per riuscire a rivedere tutto, per capire fino in fondo la grandezza di ciò che mi portavo via. Era ben oltre un metodo, aveva poco a che fare con ragionamenti su strumenti. Era lì, per noi, ciò di cui si parlava per i nostri studenti.
Ieri, per me era la seconda volta, ma non è stato diverso, se non per il fatto che sapevo dove stavo andando. Si parlava di competenze ma neanche un attimo hanno avuto la veste di quelle attese dal mondo centrato sul profitto. Nè hanno fatto la loro comparsa le tradizionali gabbie, come strumento per garantirne la conquista sicura. No, niente di tutto questo. Al centro c'erano ancora loro, i nostri bambini, i nostri ragazzi, e le competenze della vita, quelle che non è detto che siano manifestate dagli studenti che abbiamo l'abitudine a considere i più bravi. Se pensare, vuol dire inventare (bellissimi i riferimenti del Prof. Rivoltella da "Il mancino Zoppo" di Michel Serres), con coraggio si è parlato della competenza come arte della deviazione e del metodo come strumento per rendere possibile proprio questo: l'esodo. A tutto questo, anche quest'anno, è seguita una piéce teatrale e musicale tratta dalle straordinarie parole di Edgar Morin, che sono state un dono per tutti noi. Non sono riuscita a trattenere tutto, ho preferito lasciarmi avvolgere, piuttosto che appuntare anche solo poche parole chiave. Ma mi porto via la voglia di custodire quel desiderio di ribellione che altro non è che impegno di "tornare al bello".
Grazie di cuore a tutti: agli amici del Cremit, a Paola Amarelli, all'Editrice Morcelliana, a Ennio Pasinetti, a Matteo Baronchelli, all'orchestra diretta dal Maestro Mario Vitale, a tutti i colleghi presenti con il loro grande entusiasmo. E a Pier Cesare Rivoltella, docente universitario così singolare, così "capace di essere umano" e di essere uomo di scuola nella scuola. E grazie per avermi dato fiducia portandomi nella tavola rotonda di questa giornata così speciale. Non potevo essere più fortunata, io, amante del liberare e del liberarmi, di trovare sul tavolo proprio l'esodo.
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