Ho parlato pochissimo di scuola e di scelte legate al Covid-19. Ho solo risposto con pieno rispetto delle regole e con tutto il mio impegno per garantire la scuola ai bambini, sempre attenta a custodire lo spazio per la socialità, per quel crescere insieme, che la rende un contesto così importante, oltre i saperi che trasmette. L'ho fatto durante il lockdown, senza sosta. Lo sto facendo oggi, ancora senza sosta.
Quando ho preso la parola, è stato per raccontare la scuola da dentro, la forma delle nostre risposte. Nulla più. Negli ultimi anni, e ora più che mai, mi è stato sempre più chiaro che quel che conta per me è tenermi concentrata, canalizzare le energie. È rispondere a ciò che non mi convince con il mio essere maestra ogni giorno, impegnandomi al meglio per il compito che mi è affidato.
Meno che mai, ho amato le barricate dei mesi estivi che contrapponevano una nuova scuola, la digitalizzata, a quella tradizionale, come se si potesse ragionare con la contrapposizione e non con l'integrazione. Come se si potesse rinunciare a una scuola aperta al mondo, agli strumenti del nostro tempo, al valorizzare i diversi linguaggi, a fare spazio agli studenti, alla loro capacità di ideare, progettare, costruire. Che poi è quello che ci hanno insegnato i grandi maestri. Quelli che richiamiamo a gran voce ogni volta che la loro eredità ci è utile, ma che non siamo capaci di immaginare nello scenario attuale.
Tuttavia, oggi, a stare zitta non ci riesco. Sarà un po' colpa del compleanno di Gianni Rodari, che ha rimesso in movimento tanti pensieri, tra cui la convinzione, forse solo presunzione, di avere un mio orecchio verde, rimasto acerbo, che capisce più le voci dei bambini, ma anche i loro silenzi, e quelli dei ragazzi.
E sto male a guardarli, a vedere il loro malessere che si fa sempre più importante e che non sanno che farne. Prima lo hanno retto, era temporaneo, ora lo vedono estendersi a trasformare le loro vite.
Mentre noi adulti, sempre noi, parliamo di scuole aperte o di didattica a distanza, sentenziamo su scuole superiori e università chiuse, sullo smart working, sui luoghi della socialità, sugli spostamenti da sospendere.
E lo facciamo incastrati in ragionamenti infiniti che non riservano nessun tempo all'ascolto. Non vediamo Giulio, che vive chiuso in casa tutto il giorno, con un fratello più grande violento e una madre separata che non sa come mettere insieme i soldi del pranzo. Non vediamo Federica, che combatte con la sua adolescenza difficile e che ora che interagisce quasi solo da smartphone, si dispera davanti ai messaggi senza risposta o ai suoi post senza mai una reazione. Non vediamo Carla, che quest'anno doveva entrare all'Università, un progetto nel quale aveva investito tanti sogni: spostarsi da casa, la vita con le coinquiline, uno studio finalmente autonomo e tra nuovi studenti, e che invece dovrà restare a casa, davanti a uno schermo; non vediamo Marta, che invece dentro la didattica a distanza si sente bene, così finalmente non esco, non mi vesto, non devo gestirmi quelle faticose relazioni sociali; non vediamo Giacomo, al quale abbiamo consegnato un mondo con le frontiere aperte, con bagaglio sempre pronto e tante lingue, che ha costruito un percorso basato sugli spostamenti e che oggi, vede spegnersi un'opportunità dietro l'altra, mentre la sua ragazza sta dall'altra parte del mondo e non riesce a raggiungerla da febbraio; non vediamo Alessandro, che ha finalmente trovato un lavoro, e che nel giro di un attimo è già in smart working, a confrontarsi con richieste completamente nuove e con colleghi che ancora non conosce; non vediamo Tania che ha capito che non era più tempo di aspettare un lavoro a tempo indeterminato e ha deciso di aprire un'attività, e che tutti i giorni trema di disperazione, alle notizie di una nuova chiusura o di un coprifuoco, ed lì che combatte tra il mollare tutto e il resistere, con notti in bianco perché non sa più come pagare le spese. E non vediamo Giulio, che due mesi fa ha perso il padre per un terribile tumore e che ciondola solitario, senza chiedersi neanche più cosa può fare.
Non li vediamo.
Non li vediamo perché abbiamo dimenticato che siamo figli delle alleanze costruite con i compagni di banco, di una chiacchierata speciale, occhi negli occhi con un insegnante che ha saputo vederci; delle botte fuori di scuola, delle assemblee di istituto, dei comitati studenteschi, degli scioperi, del gruppo del cineforum, dei nostri circoli, dei contesti lavorativi che ci hanno saputo offrire modelli importanti, e di quelli fatti di scontri, che ci hanno aiutato a scegliere chi volevamo essere e ci hanno aiutato a definirei il nostro pensiero.
Abbiamo dimenticato che siamo effetto delle nostre trasgressioni, di aver gestito con gli amici gioie e paure. Che abbiamo appreso osservando più che da qualunque chiacchiera.
Cosa voglio dire? La situazione è questa. Stiamo vivendo una pandemia, un'emergenza sanitaria, e la salute, la vita, vengono prima di ogni cosa.
Come non essere d'accordo? È ciò che io stessa sostengo.
Ma confrontiamoci guardandoli, ascoltandoli con l'orecchio giusto, i nostri bambini, i ragazzi, i nostri giovani adulti. Lavoriamo attenti ai loro bisogni. Solo la consapevolezza e l'attenzione a ciò che non possiamo cancellare, a ciò che abbiamo il dovere di restituire (di consegnare?), può cambiare lo sguardo con cui sosteniamo ogni scelta oggi e ci affida la bussola necessaria a chi adotta uno sguardo lungo.
La pandemia è qui. Ma la disattenzione che stiamo esprimendo mi fa vergognare. Ci dice che insieme alla serenità di oggi, c'è una leggerezza che compromette il domani. E tutto, con la convinzione di manovrare nel modo migliore, mentre non facciamo che aggiustare.
"Il trauma è un'occasione di veggenza. Ci sono i risvegliati e i dormienti." Mettiamoci dalla parte dei risvegliati e investiamo energie per immaginare in modo nuovo.
Quando ho preso la parola, è stato per raccontare la scuola da dentro, la forma delle nostre risposte. Nulla più. Negli ultimi anni, e ora più che mai, mi è stato sempre più chiaro che quel che conta per me è tenermi concentrata, canalizzare le energie. È rispondere a ciò che non mi convince con il mio essere maestra ogni giorno, impegnandomi al meglio per il compito che mi è affidato.
Meno che mai, ho amato le barricate dei mesi estivi che contrapponevano una nuova scuola, la digitalizzata, a quella tradizionale, come se si potesse ragionare con la contrapposizione e non con l'integrazione. Come se si potesse rinunciare a una scuola aperta al mondo, agli strumenti del nostro tempo, al valorizzare i diversi linguaggi, a fare spazio agli studenti, alla loro capacità di ideare, progettare, costruire. Che poi è quello che ci hanno insegnato i grandi maestri. Quelli che richiamiamo a gran voce ogni volta che la loro eredità ci è utile, ma che non siamo capaci di immaginare nello scenario attuale.
Tuttavia, oggi, a stare zitta non ci riesco. Sarà un po' colpa del compleanno di Gianni Rodari, che ha rimesso in movimento tanti pensieri, tra cui la convinzione, forse solo presunzione, di avere un mio orecchio verde, rimasto acerbo, che capisce più le voci dei bambini, ma anche i loro silenzi, e quelli dei ragazzi.
E sto male a guardarli, a vedere il loro malessere che si fa sempre più importante e che non sanno che farne. Prima lo hanno retto, era temporaneo, ora lo vedono estendersi a trasformare le loro vite.
Mentre noi adulti, sempre noi, parliamo di scuole aperte o di didattica a distanza, sentenziamo su scuole superiori e università chiuse, sullo smart working, sui luoghi della socialità, sugli spostamenti da sospendere.
E lo facciamo incastrati in ragionamenti infiniti che non riservano nessun tempo all'ascolto. Non vediamo Giulio, che vive chiuso in casa tutto il giorno, con un fratello più grande violento e una madre separata che non sa come mettere insieme i soldi del pranzo. Non vediamo Federica, che combatte con la sua adolescenza difficile e che ora che interagisce quasi solo da smartphone, si dispera davanti ai messaggi senza risposta o ai suoi post senza mai una reazione. Non vediamo Carla, che quest'anno doveva entrare all'Università, un progetto nel quale aveva investito tanti sogni: spostarsi da casa, la vita con le coinquiline, uno studio finalmente autonomo e tra nuovi studenti, e che invece dovrà restare a casa, davanti a uno schermo; non vediamo Marta, che invece dentro la didattica a distanza si sente bene, così finalmente non esco, non mi vesto, non devo gestirmi quelle faticose relazioni sociali; non vediamo Giacomo, al quale abbiamo consegnato un mondo con le frontiere aperte, con bagaglio sempre pronto e tante lingue, che ha costruito un percorso basato sugli spostamenti e che oggi, vede spegnersi un'opportunità dietro l'altra, mentre la sua ragazza sta dall'altra parte del mondo e non riesce a raggiungerla da febbraio; non vediamo Alessandro, che ha finalmente trovato un lavoro, e che nel giro di un attimo è già in smart working, a confrontarsi con richieste completamente nuove e con colleghi che ancora non conosce; non vediamo Tania che ha capito che non era più tempo di aspettare un lavoro a tempo indeterminato e ha deciso di aprire un'attività, e che tutti i giorni trema di disperazione, alle notizie di una nuova chiusura o di un coprifuoco, ed lì che combatte tra il mollare tutto e il resistere, con notti in bianco perché non sa più come pagare le spese. E non vediamo Giulio, che due mesi fa ha perso il padre per un terribile tumore e che ciondola solitario, senza chiedersi neanche più cosa può fare.
Non li vediamo.
Non li vediamo perché abbiamo dimenticato che siamo figli delle alleanze costruite con i compagni di banco, di una chiacchierata speciale, occhi negli occhi con un insegnante che ha saputo vederci; delle botte fuori di scuola, delle assemblee di istituto, dei comitati studenteschi, degli scioperi, del gruppo del cineforum, dei nostri circoli, dei contesti lavorativi che ci hanno saputo offrire modelli importanti, e di quelli fatti di scontri, che ci hanno aiutato a scegliere chi volevamo essere e ci hanno aiutato a definirei il nostro pensiero.
Abbiamo dimenticato che siamo effetto delle nostre trasgressioni, di aver gestito con gli amici gioie e paure. Che abbiamo appreso osservando più che da qualunque chiacchiera.
Cosa voglio dire? La situazione è questa. Stiamo vivendo una pandemia, un'emergenza sanitaria, e la salute, la vita, vengono prima di ogni cosa.
Come non essere d'accordo? È ciò che io stessa sostengo.
Ma confrontiamoci guardandoli, ascoltandoli con l'orecchio giusto, i nostri bambini, i ragazzi, i nostri giovani adulti. Lavoriamo attenti ai loro bisogni. Solo la consapevolezza e l'attenzione a ciò che non possiamo cancellare, a ciò che abbiamo il dovere di restituire (di consegnare?), può cambiare lo sguardo con cui sosteniamo ogni scelta oggi e ci affida la bussola necessaria a chi adotta uno sguardo lungo.
La pandemia è qui. Ma la disattenzione che stiamo esprimendo mi fa vergognare. Ci dice che insieme alla serenità di oggi, c'è una leggerezza che compromette il domani. E tutto, con la convinzione di manovrare nel modo migliore, mentre non facciamo che aggiustare.
"Il trauma è un'occasione di veggenza. Ci sono i risvegliati e i dormienti." Mettiamoci dalla parte dei risvegliati e investiamo energie per immaginare in modo nuovo.
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