Con grande piacere condivido qui un articolo sulla scuola finlandese, pubblicato il 18 luglio da Marco Magni sul sito Gli Stati Generali:
https://www.glistatigenerali.com/scuola/sulla-scuola-in-finlandia-modello/
Municipale, anti-frontale e progressiva: così la scuola in Finlandia fa scuola.
Le discussioni e le polemiche di questi ultimi giorni, suscitate dal quadro sconfortante dei risultati delle prove Invalsi, mi hanno spinto a documentarmi sulla scuola finlandese. In particolare, ringrazio Antonio Vigilante, perché uno scambio di commenti su Facebook è stato fondamentale per arrivare a questo articolo.
I riflettori sulla scuola finlandese si sono accesi nei primi anni 2000, quando l’OCSE ha iniziato le rilevazioni comparate delle competenze del programma PISA, poiché il piccolo paese scandinavo si trovava costantemente nelle primissime posizioni di classifica, alternandosi con nazioni asiatiche come Corea del Sud, Hong Kong e Singapore. In particolare, è rilevante sapere che, al di là dei risultati assoluti, la Finlandia è la nazione in cui minore è la distanza di punteggio tra il primo e l’ultimo studente del campione, nel quale cioè più omogenei sono i livelli di preparazione sull’intera popolazione scolastica oggetto della rilevazione.
Nella classifica della diseguaglianza compilata da Atkinson secondo l’indice Gini, la Finlandia si trova al settimo posto nel mondo, un po’ sotto la Svezia e gli altri paesi scandinavi, ma decisamente sopra l’Italia, situata in ventiquattresima posizione. Il livello di coesione sociale è un’ottima base per spiegare l’efficacia di un sistema nazionale di istruzione, tuttavia nel caso della Finlandia non è sufficiente. L’attenzione degli osservatori si è focalizzata sul sistema scolastico stesso, e sul suo funzionamento.
In particolare, il preside francese Paul Robert ha scritto un dettagliato resoconto di una missione in Finlandia, che poi si è trasformato in un libro, La Finlande: un modèle éducatif pour la France?, pubblicato in una collana di pedagogia diretta da Philippe Meirieu. Ciò che Robert sottolinea per prima cosa è l’atmosfera di grande libertà, tolleranza, convivialità che si respira nelle scuole finlandesi, oltre ai rapporti amichevoli tra docenti e studenti. Ci tiene a sottolineare che non manca la possibilità di infliggere sanzioni disciplinari, ma che l’elemento saliente delle relazioni interne alla scuola è il grande senso di autodisciplina degli studenti finlandesi, mostrandosi colpito dalla grande differenza con le scuole francesi.
L’altro aspetto che mette in primo piano, nel suo resoconto, è la mancanza dalla “leçon magistrale”, ciò che noi chiameremmo “lezione frontale”. Gli insegnanti finlandesi, quando devono illustrare un’opera letteraria, chiamano direttamente gli studenti, nell’ora di lezione, ad individuare un brano dell’opera e a illustrarlo alla classe, oppure mostrano una situazione (anche recitata, drammatizzata, mediante strumenti audiovisivi) e poi chiamano la classe, divisa in piccoli gruppi, a discutere e a relazionare le proprie impressioni. Il numero monografico del 2005 dei Cahiers pédagogiques, dedicato alla scuola finlandese, contiene un intervista a due studenti di 13 anni che hanno avuto la ventura di frequentare sia la scuola francese che quella finlandese: uno di loro afferma di aver avuto insegnanti, in Francia, che lo hanno umiliato, e che ciò in Finlandia non potrebbe mai accadere, ma dice anche che in Francia bisogna studiare “par coeur”, ovvero a memoria, mentre in Finlandia s’impara facendo. Michael Moore, nel suo breve reportage sulla scuola finlandese, con il consueto humour, sottolinea soprattutto il fatto che gli studenti finlandesi fanno pochissimi compiti a casa pur avendo un orario scolastico più corto della media internazionale. Infine, Tim Walker, insegnante americano che ha insegnato in Finlandia, racconta di essere stato colpito dalla grande autonomia e indipendenza dei bambini finlandesi, che circolavano liberamente nei corridoi della scuola senza bisogno di sorveglianza, e si servivano autonomamente alla mensa scolastica.
La Finlandia, negli anni ’60, ha approvato, come molte altre nazioni, una riforma che andava nel senso della comprehensive school, per attenuare la segregazione sociale all’interno del sistema scolastico e aumentare l’età dell’obbligo scolastico, garantendo un livello di cultura comune per tutti i cittadini. Riforme simili sono state implementate in Italia, con la scuola media unica del ’62, in Francia, con il “college unique” del ‘75, in Inghilterra, con la comprehensive school, appunto, nei ‘60. Ma il processo seguito in Finlandia per attuare la riforma non è comparabile a quello degli altri paesi. Dopo un atto d’indirizzo nel 1968, il Parlamento ha votato una riforma che è entrata in vigore, ma gradualmente, nel 1971. In luogo di un sistema canalizzato, modellato sul sistema tedesco, che costringeva a scegliere precocemente tra istruzione liceale e istruzione professionale, è stato introdotto un canale unico dai 7 ai 16 anni, età dell’adempimento dell’obbligo scolastico, cui seguivano due canali, uno di istruzione professionale, l’altro liceale, della durata di tre anni. Il sistema è stato prima sperimentato in alcune regioni, come la Lapponia, e poi esteso all’intera nazione.
Il sistema finlandese è fortemente decentrato. Le autorità decisionali in materia d’istruzione sono le municipalità, che finanziano le scuole con il loro budget, e le scuole stesse, che tra l’altro esercitano la “chiamata diretta” nel reclutamento del personale.
Tuttavia, tali aspetti, come la natura comprensiva del sistema educativo, e la gradualità nell’implementazione del processo riformatore, importante per consolidare il sistema e sottrarlo alle piroette della politica scolastica ad ogni cambio di maggioranza governativa, non bastano a spiegare il successo della scuola finlandese. Un altro è l’aspetto determinante, quello più difficile e che, nel resto del mondo è stato per lo più, storicamente, travisato e aggirato. Il punto è che, nel sistema scolastico finlandese si è verificata la piena istituzionalizzazione dell’attivismo pedagogico, o “educazione progressiva”, che ha i suoi padri fondatori in Maria Montessori e John Dewey. L’idea che non esiste una “trasmissione” della conoscenza, ma che la conoscenza c’è solo nel momento in cui viene interpretata attivamente da chi apprende, e che l’applicazione pratica di una determinata conoscenza è inscindibile dalla “comprensione”, è un “senso comune” del corpo docente finlandese. Mentre in Italia abbiamo un settore di educazione montessoriana identificata con l’infanzia e la prima adolescenza, mentre negli Usa la pedagogia attivistica è stata – come dice Diane Ravitch -, nel processo della sua diffusione e istituzionalizzazione, “inquinata” da aspetti che non le appartenevano e che predicavano l’inutilità del sapere teorico e la necessità che la scuola fornisse un sapere immediatamente spendibile, oppure gli insegnanti sono stati lasciati soli ad improvvisare i modi della sua implementazione – come risulta dall’ampia inchiesta di Larry Cuban degli anni ’80 -, in Finlandia si è venuta costruendo una “cultura” comune proprio attorno alla pedagogia progressiva o attivistica.
Il sistema di reclutamento degli aspiranti insegnanti finlandesi è molto selettivo: per accedere al corso universitario bisogna avere già una pratica di uno o due anni come assistenti di educazione in una scuola, e – dice Robert – nell’università di Jonssu, su 1200 curricoli presentati, alla fine solamente 80 vengono ammessi al corso. E’ necessario, oltre al corso di formazione universitario, un master in pedagogia per chi insegna nella scuola dell’obbligo, e 2 anni di studio della pedagogia, oltre al perfezionamento della materia insegnata assieme alla sua didattica, per chi insegna nel triennio finale dei licei e delle scuole professionali. Il percorso di formazione implica anche numerose ore di attività pratiche in aula scolastica, per mettere in pratica le idee didattiche studiate a livello teorico.
Si comprende bene come, in Finlandia, sia stato abolito il sistema degli ispettori scolastici e come un sistema completamente decentrato dal punto di vista amministrativo possa restare nella sostanza, fortemente unitario. Un consenso sui principi, e una cultura comune relativa ai modi concreti mediante cui i principi vengono tradotti in pratica, costituiscono il cemento del sistema. Mettere al centro del sistema educativo “l’autonomia della persona” implica tutta una serie di condizioni molto impegnative affinché realmente, nell’intero processo educativo, tale autonomia possa costituirsi, in modo coerente e organico, dall’infanzia all’adolescenza, determinando una formazione di “capacità” e “competenza”.
La Finlandia non è una teoria pedagogica, ma un sistema scolastico istituzionalizzato. Nella discussione sulle riforme scolastiche italiane, a mio avviso, avrebbe il senso di mettere in luce alcune evidenze empiriche. Quali? Quelle che, con un minimo di senso critico, si possono verificare in ogni aula scolastica. Pur amando il mio lavoro di insegnante di scuola secondaria superiore, e ricevendone le giuste gratificazioni morali, io vedo che molti studenti e studentesse si annoiano. E che le classi sono spaccate. Chi prende a cuore la “causa” del professore, interfacciandosi con il suo “habitus”, e partecipando quindi anche delle indicazioni pedagogiche che ne derivano, chi invece cerca strumentalmente di adempiere alle esigenze istituzionali – ottenere i voti – in qualsivoglia modo. L’impressione è che non basti assolutamente, giungendo, quale singolo docente, al termine di una serie lunghissima di ingiunzioni lunga quanto una quasi completa carriera di studente, dire, dopo aver svolto la lezione, che le cose bisogna “saperle dire a parole proprie”. L’ingiunzione tacita che la scuola insegna a imparare “par coeur”, cioè a memoria, passa anche attraverso di te, insegnante hai che studiato la pedagogia progressiva, e che si mette in ascolto di studenti e studentesse.
Quasi tutti gli insegnanti italiani rimproverano agli studenti la loro “passività”, quasi tutti considerano lo “studiare a memoria” in termini negativi, ma quasi nessuno di loro è disposto a riconoscere che la “passività” degli studenti non è un fattore esogeno, naturale, o un prodotto di agenti esterni come la televisione o lo smartphone, ma è un prodotto del sistema scolastico e delle sue ingiunzioni.
https://www.glistatigenerali.com/scuola/sulla-scuola-in-finlandia-modello/
Municipale, anti-frontale e progressiva: così la scuola in Finlandia fa scuola.
Le discussioni e le polemiche di questi ultimi giorni, suscitate dal quadro sconfortante dei risultati delle prove Invalsi, mi hanno spinto a documentarmi sulla scuola finlandese. In particolare, ringrazio Antonio Vigilante, perché uno scambio di commenti su Facebook è stato fondamentale per arrivare a questo articolo.
I riflettori sulla scuola finlandese si sono accesi nei primi anni 2000, quando l’OCSE ha iniziato le rilevazioni comparate delle competenze del programma PISA, poiché il piccolo paese scandinavo si trovava costantemente nelle primissime posizioni di classifica, alternandosi con nazioni asiatiche come Corea del Sud, Hong Kong e Singapore. In particolare, è rilevante sapere che, al di là dei risultati assoluti, la Finlandia è la nazione in cui minore è la distanza di punteggio tra il primo e l’ultimo studente del campione, nel quale cioè più omogenei sono i livelli di preparazione sull’intera popolazione scolastica oggetto della rilevazione.
Nella classifica della diseguaglianza compilata da Atkinson secondo l’indice Gini, la Finlandia si trova al settimo posto nel mondo, un po’ sotto la Svezia e gli altri paesi scandinavi, ma decisamente sopra l’Italia, situata in ventiquattresima posizione. Il livello di coesione sociale è un’ottima base per spiegare l’efficacia di un sistema nazionale di istruzione, tuttavia nel caso della Finlandia non è sufficiente. L’attenzione degli osservatori si è focalizzata sul sistema scolastico stesso, e sul suo funzionamento.
In particolare, il preside francese Paul Robert ha scritto un dettagliato resoconto di una missione in Finlandia, che poi si è trasformato in un libro, La Finlande: un modèle éducatif pour la France?, pubblicato in una collana di pedagogia diretta da Philippe Meirieu. Ciò che Robert sottolinea per prima cosa è l’atmosfera di grande libertà, tolleranza, convivialità che si respira nelle scuole finlandesi, oltre ai rapporti amichevoli tra docenti e studenti. Ci tiene a sottolineare che non manca la possibilità di infliggere sanzioni disciplinari, ma che l’elemento saliente delle relazioni interne alla scuola è il grande senso di autodisciplina degli studenti finlandesi, mostrandosi colpito dalla grande differenza con le scuole francesi.
L’altro aspetto che mette in primo piano, nel suo resoconto, è la mancanza dalla “leçon magistrale”, ciò che noi chiameremmo “lezione frontale”. Gli insegnanti finlandesi, quando devono illustrare un’opera letteraria, chiamano direttamente gli studenti, nell’ora di lezione, ad individuare un brano dell’opera e a illustrarlo alla classe, oppure mostrano una situazione (anche recitata, drammatizzata, mediante strumenti audiovisivi) e poi chiamano la classe, divisa in piccoli gruppi, a discutere e a relazionare le proprie impressioni. Il numero monografico del 2005 dei Cahiers pédagogiques, dedicato alla scuola finlandese, contiene un intervista a due studenti di 13 anni che hanno avuto la ventura di frequentare sia la scuola francese che quella finlandese: uno di loro afferma di aver avuto insegnanti, in Francia, che lo hanno umiliato, e che ciò in Finlandia non potrebbe mai accadere, ma dice anche che in Francia bisogna studiare “par coeur”, ovvero a memoria, mentre in Finlandia s’impara facendo. Michael Moore, nel suo breve reportage sulla scuola finlandese, con il consueto humour, sottolinea soprattutto il fatto che gli studenti finlandesi fanno pochissimi compiti a casa pur avendo un orario scolastico più corto della media internazionale. Infine, Tim Walker, insegnante americano che ha insegnato in Finlandia, racconta di essere stato colpito dalla grande autonomia e indipendenza dei bambini finlandesi, che circolavano liberamente nei corridoi della scuola senza bisogno di sorveglianza, e si servivano autonomamente alla mensa scolastica.
La Finlandia, negli anni ’60, ha approvato, come molte altre nazioni, una riforma che andava nel senso della comprehensive school, per attenuare la segregazione sociale all’interno del sistema scolastico e aumentare l’età dell’obbligo scolastico, garantendo un livello di cultura comune per tutti i cittadini. Riforme simili sono state implementate in Italia, con la scuola media unica del ’62, in Francia, con il “college unique” del ‘75, in Inghilterra, con la comprehensive school, appunto, nei ‘60. Ma il processo seguito in Finlandia per attuare la riforma non è comparabile a quello degli altri paesi. Dopo un atto d’indirizzo nel 1968, il Parlamento ha votato una riforma che è entrata in vigore, ma gradualmente, nel 1971. In luogo di un sistema canalizzato, modellato sul sistema tedesco, che costringeva a scegliere precocemente tra istruzione liceale e istruzione professionale, è stato introdotto un canale unico dai 7 ai 16 anni, età dell’adempimento dell’obbligo scolastico, cui seguivano due canali, uno di istruzione professionale, l’altro liceale, della durata di tre anni. Il sistema è stato prima sperimentato in alcune regioni, come la Lapponia, e poi esteso all’intera nazione.
Il sistema finlandese è fortemente decentrato. Le autorità decisionali in materia d’istruzione sono le municipalità, che finanziano le scuole con il loro budget, e le scuole stesse, che tra l’altro esercitano la “chiamata diretta” nel reclutamento del personale.
Tuttavia, tali aspetti, come la natura comprensiva del sistema educativo, e la gradualità nell’implementazione del processo riformatore, importante per consolidare il sistema e sottrarlo alle piroette della politica scolastica ad ogni cambio di maggioranza governativa, non bastano a spiegare il successo della scuola finlandese. Un altro è l’aspetto determinante, quello più difficile e che, nel resto del mondo è stato per lo più, storicamente, travisato e aggirato. Il punto è che, nel sistema scolastico finlandese si è verificata la piena istituzionalizzazione dell’attivismo pedagogico, o “educazione progressiva”, che ha i suoi padri fondatori in Maria Montessori e John Dewey. L’idea che non esiste una “trasmissione” della conoscenza, ma che la conoscenza c’è solo nel momento in cui viene interpretata attivamente da chi apprende, e che l’applicazione pratica di una determinata conoscenza è inscindibile dalla “comprensione”, è un “senso comune” del corpo docente finlandese. Mentre in Italia abbiamo un settore di educazione montessoriana identificata con l’infanzia e la prima adolescenza, mentre negli Usa la pedagogia attivistica è stata – come dice Diane Ravitch -, nel processo della sua diffusione e istituzionalizzazione, “inquinata” da aspetti che non le appartenevano e che predicavano l’inutilità del sapere teorico e la necessità che la scuola fornisse un sapere immediatamente spendibile, oppure gli insegnanti sono stati lasciati soli ad improvvisare i modi della sua implementazione – come risulta dall’ampia inchiesta di Larry Cuban degli anni ’80 -, in Finlandia si è venuta costruendo una “cultura” comune proprio attorno alla pedagogia progressiva o attivistica.
Il sistema di reclutamento degli aspiranti insegnanti finlandesi è molto selettivo: per accedere al corso universitario bisogna avere già una pratica di uno o due anni come assistenti di educazione in una scuola, e – dice Robert – nell’università di Jonssu, su 1200 curricoli presentati, alla fine solamente 80 vengono ammessi al corso. E’ necessario, oltre al corso di formazione universitario, un master in pedagogia per chi insegna nella scuola dell’obbligo, e 2 anni di studio della pedagogia, oltre al perfezionamento della materia insegnata assieme alla sua didattica, per chi insegna nel triennio finale dei licei e delle scuole professionali. Il percorso di formazione implica anche numerose ore di attività pratiche in aula scolastica, per mettere in pratica le idee didattiche studiate a livello teorico.
Si comprende bene come, in Finlandia, sia stato abolito il sistema degli ispettori scolastici e come un sistema completamente decentrato dal punto di vista amministrativo possa restare nella sostanza, fortemente unitario. Un consenso sui principi, e una cultura comune relativa ai modi concreti mediante cui i principi vengono tradotti in pratica, costituiscono il cemento del sistema. Mettere al centro del sistema educativo “l’autonomia della persona” implica tutta una serie di condizioni molto impegnative affinché realmente, nell’intero processo educativo, tale autonomia possa costituirsi, in modo coerente e organico, dall’infanzia all’adolescenza, determinando una formazione di “capacità” e “competenza”.
La Finlandia non è una teoria pedagogica, ma un sistema scolastico istituzionalizzato. Nella discussione sulle riforme scolastiche italiane, a mio avviso, avrebbe il senso di mettere in luce alcune evidenze empiriche. Quali? Quelle che, con un minimo di senso critico, si possono verificare in ogni aula scolastica. Pur amando il mio lavoro di insegnante di scuola secondaria superiore, e ricevendone le giuste gratificazioni morali, io vedo che molti studenti e studentesse si annoiano. E che le classi sono spaccate. Chi prende a cuore la “causa” del professore, interfacciandosi con il suo “habitus”, e partecipando quindi anche delle indicazioni pedagogiche che ne derivano, chi invece cerca strumentalmente di adempiere alle esigenze istituzionali – ottenere i voti – in qualsivoglia modo. L’impressione è che non basti assolutamente, giungendo, quale singolo docente, al termine di una serie lunghissima di ingiunzioni lunga quanto una quasi completa carriera di studente, dire, dopo aver svolto la lezione, che le cose bisogna “saperle dire a parole proprie”. L’ingiunzione tacita che la scuola insegna a imparare “par coeur”, cioè a memoria, passa anche attraverso di te, insegnante hai che studiato la pedagogia progressiva, e che si mette in ascolto di studenti e studentesse.
Quasi tutti gli insegnanti italiani rimproverano agli studenti la loro “passività”, quasi tutti considerano lo “studiare a memoria” in termini negativi, ma quasi nessuno di loro è disposto a riconoscere che la “passività” degli studenti non è un fattore esogeno, naturale, o un prodotto di agenti esterni come la televisione o lo smartphone, ma è un prodotto del sistema scolastico e delle sue ingiunzioni.
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