mercoledì 20 gennaio 2016

Non sono fatta per i voti. Questo è sempre più chiaro.

Stamattina. Una giornata qualunque, anche se a scuola una giornata non è mai qualunque per chi, pur immergendosi completamente, non può fare a meno di vedere tutte le piccole grandi cose che ogni giorno partecipano alle attività con noi, ne fanno parte e ci modificano.
Completiamo un lavoro di scrittura: una storia da riordinare in sequenze da accompagnare con ricche didascalie. E inizia la ricreazione.
I bambini e le bambine si gestiscono per andare in bagno e nel frattempo si organizzano in tavolate, pronti ad aspettarsi per iniziare a mangiare tutti insieme. Come sempre intervengo quando noto che qualcuno è rimasto solo. La mia attenzione è tutta concentrata sul tavolo della nuova compagna: come mai è sola? No, non è sola, c’è Chiara con lei.
- Perché c’è solo Chiara con Seynabou?
Invito a riflettere e a modificare l’organizzazione. Riorganizzano. Le tavolate si modificano.
Il mio sguardo si sposta. Alla mia destra c’è un altro bambino solo.
Domando come mai sia solo e lui mi dice subito che è una sua scelta. Loro sanno che se si tratta di una loro scelta non intervengo. Uno può anche avere voglia di stare un po’ da solo, no?
Ma non finisce di dare la risposta che vedo il suo sguardo modificarsi, l’espressione cambia e gli occhi iniziano a gonfiarsi.
Vedo il pianto che arriva. Gli vado incontro e le lacrime già scendono a fiumi. Lo abbraccio, lo bacio, gli chiedo che cosa sia successo. Chiedo perché non vada dai compagni. Attribuisco questa sua sofferenza, che in quel momento sembrava enorme, a qualche dinamica di cui non ha voluto dirmi. A volte i bambini si sanno ferire e non si rendono neanche conto.
Invece mi dice che non c’è niente con nessuno. Allora mi illumino.
- È per la valutazione gli chiedo?
Capisco subito che ho azzeccato. Le lacrime aumentano.
- Ma io non metto voti, non vi valuto mai. Non puoi vivere così la valutazione settimanale dell’impegno. Valutiamo solo questo, lo sai. E se lo valutiamo, non possiamo non tener conto del materiale che abbandoni dove capita e che regolarmente non ti ritrovi, dell’impegno che oggi avevi con la classe e di cui ti sei dimenticato… D’altronde è un distinto. Non mi sembra una cosa così terribile.
Si tratta della nostra striscia settimanale con la quale dall’anno scorso valutiamo. Contiene l’immagine di una maestra sorridente e una semplice tabella con i giudizi sui quali riporre una crocetta. Non ciò che uno sa fare (lo sanno bene che questo può dipendere da tante cose e che per noi non è oggetto di valutazione), ma il loro impegno. Impegno e cura nello svolgimento delle consegne, nella collaborazione con i compagni, nel portare il materiale scolastico.
Nonostante le mie parole, le lacrime aumentano.
- Ma amore, non puoi piangere così per una cosa del genere. Distinto è un giudizio meraviglioso, non potevamo mettere ottimo. Tu sai bene quali sono gli aspetti di cui teniamo conto.
Tra i singhiozzi, mi guarda e mi dice: - No, maestra, a me va benissimo. È a mamma che non va bene. Lei ora mi punisce per una settimana.
- Ma è distinto amore – rinforzo - Poco poco meno dell’ottimo!
- Sì, a mamma il distino va ancora bene.
Allora mi rendo conto. Il problema non è solo la mamma, ma è anche la mia valutazione. Ci ripenso. Non ho messo distinto, ho messo buono. Ecco il vero problema. Ho evidenziato troppo le dimenticanze a svantaggio di tutte le cose in cui dimostra un impegno continuo.
Rifletto. Mamma a parte, il bambino non è convinto. Sta percependo la valutazione come un’ingiustizia e questo mi preoccupa di più.
Mi fermo un attimo. Nella mia testa si intrecciano le diverse posizioni educative. Quelle con le quali faccio i conti di continuo e che non tornano mai con ciò che vivo.
Attenzione al bambino. Bisogna mettersi dal punto di vista del bambino, concentrarsi sul suo benessere e sulla sua serenità. Insegnargli a tirare fuori ciò che sente.
Troppa attenzione al bambino. Le sconfitte fanno crescere.
E ancora, la più faticosa… l’assenza di fermezza non dà un bel messaggio educativo.
Guardo lui, solo lui, non la mamma, né nessun altro. E la risposta arriva immediata, nella sua semplicità.
Lo conosco bene. Conosco la sua motivazione, la sua allegria mentre apprende, la capacità di collaborare, di aiutare tutti. Dimentica le cose, questo è assolutamente vero. Ma un segnale è sufficiente. Per lui il buono, in qualche modo, rappresenta due segnali.
Ingoio i rischi. Gli chiedo di portare il quaderno, in silenzio.
Piano piano stacchiamo la striscia del giudizio. Ne incollo una che copre le tracce della precedente. E buono diventa distinto.
Mi muovo in silenzio. È una cosa che riguarda solo noi. Gli altri potrebbero davvero fraintendere.
- Può diventare solo distinto - preciso a voce bassa e, assumendomi la responsabilità dell’errore, spiego: - In effetti, questa volta ho esagerato. Ero adirata perché hai dimenticato l’impegno importante che ti avevo affidato per oggi. E tu lo sai, gli impegni che si prendono con il gruppo sono più importanti di quelli che riguardano solo se stessi.
Ora è accettato. Il sorriso torna. Lui non era convinto e questo era più ingombrante della reazione della mamma.
Il tempo ha ripreso a scorrere. Il chiasso della ricreazione ha rioccupato la bolla di silenzio in cui c’eravamo infilati noi. Se si è unito al gruppo, non lo so. Ma era di nuovo sereno.
Devo insegnargli che deve dare parole al pianto.
Lo dico sempre ai bambini, ma devo farlo ancora. Difendete ciò in cui credete, anche se sono io la persona che non vi convince.
Le reazioni a casa sono un altro discorso. Di quello impareranno ad occuparsi loro. L’importante è che assieme a queste non debbano gestire la sensazione di ingiustizia.
Poco dopo tutto questo, vado via. Oggi mi aspetta un impegno interessante. Uscita alle 11.30.
Sono leggera e rido anche un po’ di me.
Non sono fatta per i voti. Questo è sempre più chiaro.

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