sabato 20 aprile 2019

Storie di solitudine

Mentre leggo di Giuseppe, il bambino ucciso a botte dal patrigno, non posso fare a meno di pensare a tutti quei bambini, e non solo bambini, che oggi arrivano nelle nostre aule portandosi dietro storie incredibili, perlopiù vissute in scenari di ormai grande solitudine, e che, anziché trovare accoglienza (Giuseppe veniva chiamato scimmia dalle sue maestre), vengono denigrati e esclusi (il riferimento non è certamente ai soli insegnanti: quanto sanno essere spietati i genitori nei confronti dei figli non loro?).
Così mi domando: ma la scuola non dovrebbe essere, proprio per loro, l’altra opportunità? Quel contesto in cui trovare, prima di tutto, un ambiente sereno, accogliente, capace di rafforzarli. In cui poter fare riferimento ad altri adulti significativi? Eppure no. Non è così che funziona.
Perché questi bambini, questi ragazzi, sono gli stessi che hanno comportamenti inadeguati, problemi di apprendimento. Sono loro quelli raggruppati nella ben nota categoria degli elementi di disturbo

Mi sto chiedendo che cosa ne pensi di questi scenari Antonio Deiara (https://www.orizzontescuola.it/urge-un-anno-zero-della-scu…/), del quale ho incontrato l’articolo proprio in questi giorni e che, evidentemente, è preoccupato solo del fatto che “i bravi e meritevoli (e se fossero solo i più fortunati?, dico io) non possono essere sacrificati per recuperare i meno bravi”, e pensa – anzi no, ben più grave!, lo scrive, e il suo pensiero viene pure pubblicato – che per certi comportamenti-problema la risposta sia la galera e che se un alunno non si impegna e non impara (come se davvero ci fosse qualcuno che non vuole imparare), la soluzione sia una, semplice e chiara: eliminarlo.
Quindi, per capirci, viene sostenuta la scuola in cui, chi vive situazioni di disagio, deve essere eliminato per la seconda volta.
Che sia il caso di farsi qualche domanda in più ed esplorare altre strade? Che dice Prof. Deiara?
Intanto le regalo queste parole, perché forse non le ha lette o, se le ha lette, non l’hanno fatta riflettere come hanno fatto riflettere me:

I nostri studenti che “vanno male” (studenti ritenuti senza avvenire) non vengono mai soli a scuola. In classe entra una cipolla: svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti, rinunce furibonde accumulati su un substrato di passato disonorevole, di presente minaccioso, di futuro precluso. Guardateli, ecco che arrivano, il corpo in divenire e la famiglia nello zaino. La lezione può cominciare solo dopo che hanno posato il fardello e pelato la cipolla. Difficile spiegarlo, ma spesso basta solo uno sguardo, una frase benevola, la parola di un adulto, fiduciosa, chiara ed equilibrata per dissolvere quei magoni, alleviare quegli animi, collocarli in un presente rigorosamente indicativo.
Naturalmente il beneficio sarà provvisorio, la cipolla si ricomporrà all'uscita e forse domani bisognerà ricominciare daccapo. Ma insegnare è proprio questo: ricominciare fino a scomparire come professori. Se non riusciamo a collocare i nostri studenti nell'indicativo presente della nostra lezione, se il nostro sapere e il piacere di servirsene non attecchiscono su quei ragazzini e quelle ragazzine, nel senso botanico, la loro esistenza vacillerà sopra vuoti infiniti. Certo, non saremo gli unici a scavare quei cunicoli a non riuscire a colmarli, ma quelle donne e quegli uomini avranno comunque passato uno o più anni della loro giovinezza seduti di fronte a noi. E non è poco un anno di scuola andato in malora: è l'eternità in un barattolo.
[…] (Daniel Pennac)

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